Sabato 14 Ottobre 2017.
Mai avrei pensato di riuscire a vivere un’esperienza così ricca di emozioni, a pieno contatto con la natura più selvaggia e i suoi abitanti.
Partito alle 17:00 per recuperare i guinzagli dei miei due cani, Gromit e Belle, che avevo usato in precedenza per calarmi da un balzo di roccia, mentre sono intento a liberare i due guinzagli legati a un albero che sporge dalla cima della roccia, sento belare l’agnellino che da ormai due mesi vaga per le montagne con la mamma e la capra Paglia.
Mollo tutto e inizio a salire verso il luogo da cui penso provenga il belato. In questa direzione mi allaccerò presto al sentiero CAI 712 - che conosco bene - e che ho già fatto in parte anche al buio con l’aiuto delle stelle e della luna.
Dopo circa 30 minuti di salita impegnativa, mi accorgo che la montagna è spaccata da uno squarcio profondo circa 30 metri e largo 2, troppi per tentare un salto senza rischiare di ammazzarmi, come se non bastasse, mentre mi tiro su con l’aiuto di un ramo, sento una fitta che trafigge il mio fianco destro.
Oddio, uno strappo!
Sono ormai le 18:15. Il buio arriverà inesorabile alle 19.30, tornare a scendere a quest'ora sarebbe improponibile già in condizioni normali e lo strappo rende l’impresa al momento impossibile.
Mi guardo intorno. Mi trovo a circa 1100 mt, sulla cima di un crostone di montagna, sul lato nord della catena del Gran Monte, tra il Monte Starmaz e il Montemaggiore.
Il panorama è di quelli mozzafiato: davanti a me vedo - come fosse alla mia altezza - tutta la catena dei Musi e in fondo, sulla destra, la maestosità del Canin, sovrano su tutte le altre vette.
Sono circondato da strapiombi.
A sinistra, a valle, vedo le distese di prati tanto amati dai cacciatori che da lì hanno mira facile per le loro sfortunate prede; alla mia destra, due canaloni, quello del Rio Plotavaca, fonte perenne per tutti gli animali della vallata, compresi i nostri e più in là il canalone della vecchia funivia.
Da quassù provo a gridare a Viviana, la mia dolce compagna, impegnata giù a valle a far pascolare liberi i nostri animali - sei asini, due cavalli e tre pecore - in compagnia di mio figlio Davide di 5 anni.
Lei mi sente!
Le dico di andare a casa perché non posso più scendere, di non preoccuparsi, che sto bene, che rimarrò qui per la notte e scenderò domani mattina all’alba.
A quell’altezza, la mia voce risuona 4/5 volte, arriva a valle confusa ma Viviana riesce a capire ciò che urlo!
Mentre il buio scende, mi preparo tranquillo a trascorrere la notte, quella che per me è e sarà probabilmente una delle notti più belle della mia vita!
Inizio a guardarmi intorno per capire quale sia il posto più sicuro e riparato per un giaciglio. Scelgo una buca composta principalmente da humus, frutto della decomposizione delle foglie degli alberi.
Il mio giaciglio sarà morbido e allo stesso tempo mi proteggerà dalle correnti di aria fredda [quassù ci saranno al massimo 4° o 5°].
L’autunno mi viene incontro nei miei preparativi, tutto intorno ci sono distese di foglie secche candidate a diventare la mia coperta e il mio materasso insieme all’humus.
Arriva il buio, l’escursione termica è tanto brusca da risultare l’unico momento in cui il mio corpo trema alcuni secondi prima di ritrovare un suo equilibrio e adattarsi alle nuove condizioni.
Sono appena agli inizi, devo trovare ancora qualche rimedio per affrontare il freddo della notte. Se non riuscirò a dormire bene, senza cena né acqua, domani mattina non avrò le forze per scendere a valle.
Mi guardo. Ho addosso un paio di pantaloni con i tasconi, un cinturone, scarpe antinfortunistiche alte, una maglietta bianca sintetica a maniche corte e un paio di guanti attillati da elettricista.
Mi tolgo la maglietta, chiudo le maniche e la fessura per la testa e mi ci infilo dentro come fosse un sacco a pelo; chiudo poi l’altra estremità dentro i pantaloni stringendo ancor più la cintura. La maglietta è sufficientemente elastica e traspirante allo scopo, trattiene il calore del mio corpo all’interno e fa sì che il mio stesso respiro contribuisca a generare quel leggero tepore utile a conciliare il sonno.
Un po’ l’istinto di sopravvivenza, un po’ la preparazione che ho acquisito in grotta con il gruppo speleologico friulano e l’esperienza in tenda con la Protezione Civile a L’Aquila dove le escursioni termiche tra il giorno e la notte arrivavano anche a 20°, mi stanno aiutando in questo momento.
La notte, una di quelle che solo la montagna può regalare, grazie a un cielo limpido, è luminosa. L’intera Via Lattea e la luna rischiarano con luce tenue, naturale e discreta tutta la vita del bosco.
Mi sveglio più volte, o perché muovendomi si aprono le maniche, lasciando entrare nel mio “sacco a pelo” spifferi di aria fredda, più spesso perché percepisco attorno a me numerosi passi.
Ovviamente appartengono ad animali selvatici. Non posso dire con esattezza di quali animali si tratti, mi camminano intorno e vedo i riflessi dei loro occhi che mi fissano, mi guardano, mi girano intorno per capire chi sia questo strano intruso che di notte dorme nel loro bosco: un andirivieni di coppie di occhi e di ombre, quasi tutte con riflessi bianchi (probabilmente camosci, cervi, caprioli, tasso, volpe, faina] tranne alcuni rossi quasi a raso terra. Il gentilissimo e preparato Comandante della forestale locale mi dirà poi che potevano appartenere a lepri o a ghiri.
Arriva l'alba.
Risvegliandomi, sento di nuovo Viviana che mi chiama.
Mi alzo in piedi, le grido che non posso scendere e le chiedo di chiamare i soccorsi. Il dolore nella parte interessata allo strappo è diventato insopportabile e non potrei in alcun modo intraprendere una discesa difficoltosa già per una persona preparata e senza indisposizione alcuna.
Per primo arriva da me Daniele, compagno di mia sorella Sara. Contemporaneamente, gli uomini del soccorso alpino della Guardia di Finanza stanno cercando una strada alternativa. Daniele scende fino a metà e torna su da me con tre di loro, che arrivano con un sorriso rassicurante e una grande energia: per un momento sembra un ritrovo tra amici che si godono una splendida giornata di montagna!
Uno dei soccorritori si arrampica su un paio di alberi per sfrondarli con un seghetto in modo da permettere all’elicottero di calare il verricello, altri due invece si occupano di comunicare via radio le coordinate, l’altezza e di interloquire con il pilota dell’elicottero.
Dal velivolo scendono un tecnico dell’elisoccorso e una gentilissima e rassicurante dottoressa, medico rianimatore. Mi visita, mi porge qualche domanda e mi somministra un potente antidolorifico. Mi dicono inoltre che ho due possibilità di essere trasportato, con il “pannolone” (imbracatura da soccorso ed elisoccorso) oppure con la barella. Optiamo per l’imbrago.
Pochi minuti dopo, veniamo tutti trasportati in elicottero fino ai prati di Passo Tanamea, nei pressi della nuova area naturalistica “Il Fortino” che io e tutti gli altri volontari gestiamo con passione.
G.R.
Il racconto è stato pubblicato in un'intervista della giornalista P. Treppo su Il Gazzettino del 20/10/2017 che ringraziamo. L'articolo è anche online al seguente link